Rivelare, portare a conoscenza una cosa non nota [dal lat. imago -gĭnis]. L’essere velato ha da sempre contraddistinto i limiti della capacità razionale dell’uomo, ovvero qualcosa che non può essere mai completamente compresa.
La 'cosa' è ciò che non possiede ancora un nome, manca di designazione e per questo motivo non appartiene né alla realtà né tantomeno alla visione. D’altro canto è proprio nell’atto di velarsi che il mistero s’incarna e si manifesta, come in un paesaggio in cui i boschi affondano in un lattiginoso lago di nuvole.
La natura ama offuscare la nostra visione, ri- velarsi appunto, ed è nel velarsi che si manifesta come immagine, ma è proprio in questo incessante manifestarsi che si ha la sensazione che essa ci chieda non intendimento ma ospitalità. Ed è allora, solo allora che quella 'cosa' potrà essere nominata.
Pronunciare ciò che viene a svelarsi è aprirsi per dare corpo al sensibile, l’opera d’arte quindi reca in sé un attimo della vita dello spirito, essa è essenzialmente un’apostrofe. Invocare il tempo della visione vuole dire scomporre il prima dal dopo, attraversare la scena per dare inizio ad una nuova origine.
La visibilità non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee di luce che formano immagini variabili, inseparabili dalla loro finitezza. Le fronde di un albero, come direbbe Foucault: “inglobano tragitti da una linea all’altra, operano degli andirivieni del vedere, agendo come frecce provocano incrinature o addirittura fratture, sciogliere la matassa delle linee della sensazione visiva significa ogni volta tracciare una carta, cartografare, misurare spazi in divenire.
”Pensare di arte significa quindi abitare l’inquietudine e spingere ogni finito oltre se stesso." AGOSTINO X
Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni; dove pure sono depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito o sepolto.
Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate, e mentre ne cerco e ne desidero altre, ballano in mezzo, con l’aria di dire: “non siamo noi per caso?”. E io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria. Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle narici, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso.
Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza. Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, benché siano visibili i sensi che le captano e le ripongono nel nostro interno.
Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio; la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte. Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie. Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.
A questo appartiene l’arte, che ha nel suo 'prima' la natura e il suo 'poi' nel raggiungimento della verità per divenire infine forma.
A cura di Massimo Sacchetti; Finestra sull'Arte