Cultura | 27 gennaio 2024, 07:00

'Olocausto' o 'Shoah'; la bellezza germoglia e cresce nella differenza

'Olocausto' o 'Shoah'; la bellezza germoglia e cresce nella differenza

La bellezza, pura verità e suprema giustizia, nasce e vive nella differenza. Ma cos’è la differenza? Il termine deriva dal verbo greco φέρω, che significa “portare”, preceduto dal prefisso verbale δια, ossia “qua e là”, pertanto διαφέρω assume il significato di portare altro, di introdurre in una determinata realtà aspetti diversi rispetto a quelli già presenti, di condurre il nuovo verso l’esistente attraverso specifici processi che avvengono in determinate circostanze e dinamiche comunicative e relazionali.

Qualsiasi novità non intende preoccuparsi dell’uguaglianza, non aspira a quel concetto illusorio che è la superiorità e fugge costantemente dall’effusione di sentimenti di inferiorità. Allora la stessa differenza non può inneggiare al vuoto crudele e spietato della privazione. Non sa evocare quella separazione segnata dal dolore di lacrime che hanno perduto l’orientamento nello spazio, smarrendo definitivamente anche il senso del tempo. Non è in grado di tracciare il solco profondo della distanza per poi rimanere in attesa di una spada, apparentemente sublime, che difenda il suo operato.

Essa è magnifica espressione di un movimento che rivela e rileva e con la similitudine si pone in rapporto di co-essenzialità reciproca. Purtroppo, però, da sempre la differenza si trova a fronteggiare la rigida logica insita nel principio di identità, che spesso vuole escludere e sottomettere quel che non essendo noto e condiviso è indegno di apprezzamento. Questo perché il riconoscimento di sé si costruisce scrutando l’interno del proprio involucro e volgendo un’adeguata attenzione all’esterno, ma talvolta tale osservazione può diventare talmente superba e individualista da dimenticare l’importanza che riveste ciò che viene definito “altro”. 

Si finisce per riconoscere semplicemente ciò che si conosce e si dimentica che solo nell’integrazione con quello che appare differente vi è discernimento e accoglienza di quel che si è. Il genocidio degli ebrei, perpetrato ad opera del nazionalsocialismo e del fascismo, rappresenta proprio la pagina della storia che meglio descrive questo errato modo di pensare, questo collocarsi sul gradino più alto di una scala immaginaria vista sempre dalla prospettiva sbagliata. Servendosi di rappresentazioni ben ponderate e definite nei più insignificanti dettagli, in quegli anni l’apparenza e la falsità hanno soppiantato la sostanza e la verità. Lo spettacolo inscenato è parso a tutti nient’affatto artificiale eppure, professando la più completa schiettezza avente i tratti della giusta religione, si è vestito brillantemente con la più totale disonestà. L’estrema crudeltà ha assunto sembianze comuni, modi gentili, tratti acerbi e talvolta maturi. Si è fatta figlia di burattini convinti della giustizia di un’idea creata ad arte da burattinai fin troppo astuti. Ha potuto trovare la sua concretezza grazie alla recita di attori in evidenza, guidati da registi ben nascosti dietro alle tende del palcoscenico o magari seduti tra la folla inconsapevole. Loro pochi, gli altri tanti e proprio quei tanti sono stati sacrificati per un disegno più grande, perché agli artisti supremi non serviva guardare ogni forma e colore, ma semplicemente giungere alla completezza di un dipinto che nelle loro menti aveva già dei contorni ben definiti. Tutto è stato solo un’orrenda sfilata di maschere, vittime e carnefici hanno finito per confondere e confondersi e, come sempre, i soliti innocenti hanno dovuto pagare per la follia della più bieca falsità.

Si tende a dare una definizione dell’accadimento avvalendosi della parola “Olocausto”, che deriva dal greco ὁλόκαυστος “bruciato interamente”, inizialmente utilizzata per indicare la più retta forma di sacrificio prevista dal giudaismo. Essa, nel ricordare la pratica diffusa tra i popoli antichi che prevedeva che gli animali venissero completamente bruciati senza poter essere consumati, richiama l’incenerimento dei corpi nei forni crematori e può risultare anche offensiva nei confronti delle vittime perché porta con sé l’immagine di un’offerta inevitabile alla divinità per l’espiazione dei peccati. Però non vi può essere nulla di religioso negli atti atroci e violenti che hanno caratterizzato quell’epoca oscura, per questo la maggior parte degli studiosi si riferisce a quegli anni prediligendo la parola “Shoah”, derivante dalla lingua ebraica con l’accezione di “tempesta devastante”, una vera e propria catastrofe, la totale distruzione di qualsiasi forma di umanità.

Insomma, oggi questa va a dare un nome al piano messo in atto dal nazismo per l’eliminazione sistematica degli ebrei che vivevano nei territori tedeschi o occupati dalla Germania, soluzione teorizzata nel 1941, discussa l’anno successivo nella conferenza di Wannsee e portata avanti fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945. Inoltre, considerando il fatto che l’uccisione della popolazione ebraica nei campi di sterminio sia stata il culmine di una storia di antisemitismo saldamente radicata a vecchi pregiudizi e antiche ostilità, nel termine “Shoah” può essere inclusa anche la legislazione antiebraica applicata in Germania, nel 1935, attraverso le leggi di Norimberga e in Italia, nel 1938, con le leggi razziali. Infatti, seppur dall’epoca della Repubblica di Weimar, dunque dal 1919, gli ebrei tedeschi erano perfettamente integrati nella società e parecchi di essi avevano avuto successo nelle attività che svolgevano, improvvisamente divennero pericolosi nemici interni a cui indirizzare odio inimmaginabile. Dapprima vennero perseguitati e gli venne resa la vita impossibile, poi i nazisti vollero sottrar loro tutti gli averi, materiali e immateriali. Li allontanarono dai loro cari, li segregarono, li vollero nudi per privarli di qualsiasi decoro, li vestirono di pigiami che distruggessero la loro identità e li rendessero tutti uguali. Li rasarono, li marchiarono, gli tolsero un nome e gli regalarono un numero. Li obbligarono a lavorare per ore, senza offrirgli un adeguato nutrimento, li maltrattarono e li condussero verso la morte, soffocandoli con gas tossici e bruciando i loro oramai esili e deturpati corpi. Nel sottolineare quanto quei poveri innocenti fossero il male della società, un pericolo per la sicurezza nazionale e la purezza della razza ariana, tutti, con o senza uniforme, divennero belve feroci travestite da candidi agnelli. Questo in un silenzio assordante, perché d’altronde è giusto solo ciò che viene sapientemente narrato e se la narrazione è efficace tutto diventa grottescamente normale. Ma il silenzio di allora oggi deve saper fare un enorme rumore per arrivare a ogni cuore e renderlo consapevole.

Si deve quotidianamente ricordare quanta poesia possa essere presente nella differenza perché racconti simili non siano più rappresentati, in un percorso di arricchimento fatto di versi che nel ricordo del buio del passato sappiano scrivere un futuro luminoso, lontano da qualsiasi finzione, più vicino a una memoria disposta a farsi cura. Per essere uomini non basta avere fattezze d’uomo…per essere uomini occorre restare umani!

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CHI E' VALENTINA ADIUTORI

Valentina Adiutori nasce ad Anagni (FR) il 13/05/1989. All'età di sette anni si avvicina agli spartiti musicali e la bellezza disarmante delle note la trasporta in un mondo di soli suoni e colori. Quello strano universo, che dona concretezza all'astrattezza e mette ordine nel disordine, la affascina incredibilmente e diventa inchiostro versato su candidi fogli, fino a poco prima privi di qualsiasi sfumatura. Le emozioni si trasformano in fiumi prorompenti di parole che riescono a creare immagini entusiasmanti e divengono rime, strofe, canzoni, poesie. Passano gli anni e quella bambina, con le sue mille fantasticherie scritte ovunque, lascia spazio a una ragazza che si avvicina sempre più alla letteratura e alla filosofia, materie che appagano oltremodo la sua sete di conoscenza e la rendono estremamente attenta, curiosa e introspettiva. È allora che acquista la consapevolezza della grandezza dei sogni che stringe tra le mani e cerca di renderli una solida realtà, perciò partecipa a vari concorsi letterari nazionali e internazionali, ottenendo importanti riconoscimenti. Nel medesimo periodo inizia a studiare armonia e composizione e al contempo scrive documentari per un'emittente televisiva locale. Nel 2006 pubblica il romanzo 'Alla ricerca di un sogno da vivere' (Montedit) e nel 2007 vede la luce 'NON c'era una volta' (Il Filo). L'anno successivo consegue il diploma di Liceo Scientifico e, dopo essersi trasferita in un paesino in provincia di Trento, si laurea in Scienze della Comunicazione presso l'Università degli Studi di Verona. Nel 2023 consegue il master in Marketing Management nell'Università degli Studi Niccolò Cusano.

 

 

Valentina Adiutori