Religio et Fides | 13 ottobre 2024, 06:00

'Il giovane ricco', Francesco Bonsignori (1455-1519)

'Il giovane ricco', Francesco Bonsignori (1455-1519)

Un uomo corre incontro a Gesù e gli si getta davanti in ginocchio domandandogli: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Non chiede di essere guarito da una malattia fisica bensì da un malessere interiore ed esistenziale, è un ebreo che segue i comandamenti ma avverte in sé stesso un vuoto che lo conduce fin da Gesù per chiedergli come avere un’esistenza piena, sicuro che avrebbe dovuto procurarsi qualcosa in più per essere davvero felice ma il Maestro lo spiazzerà.

Vediamo i passaggi cruciali dell’incontro tra i due: Gesù gli chiede se conosce i comandamenti e ricevendo risposta affermativa l’evangelista sottolinea che fissò lo sguardo su di lui e lo amò cioè lo guarda in profondità, come solo Dio sa fare, ma senza giudizio o cattiveria bensì con affetto, entra nel suo cuore per fare luce su quel problema che lo affligge e gli dice: “Una cosa sola ti manca”, che non significa: la tua vita è a posto, devi solo fare questa cosa, bensì gli fa notare che gli manca l’essenziale, le fondamenta e pronuncia queste parole: “va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”.

Quell'uomo va da Gesù per ricevere qualcosa in più per essere felice e Lui invece lo invita a dare di più - perché il suo problema era l’attaccamento a se stesso e ai beni materiali - pensando che ciò che possedeva potesse rendere piena la sua esistenza. Gesù invece ribalta completamente la prospettiva e riprenderà questo concetto anche dopo con i discepoli, che restano perplessi quando afferma: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”.

Il Maestro insegna a quell’uomo, agli apostoli e anche a noi che la vera felicità non consiste nell’avere e nel trattenere ma nel dare e nel donarsi. La vita è piena quando la offri e non quando accumuli per te stesso, è proprio il procedimento inverso. Domandiamoci allora: la mia vita è piena? Non nel senso se ho tanti impegni, o se posseggo tanti beni ma se avverto in me un senso di soddisfazione, di appagamento e questo non lo si può ottenere non accumulando ma donandoci, offrendo ciò che di più prezioso possediamo: tempo e risorse. Quando siamo infelici? Quando crediamo che siano soltanto gli altri a doverci donare attenzione, affetto, tempo, ascolto, aiuto e noi non ne diamo. Prima di preoccuparmi se gli altri mi amano dovrei chiedermi se io sto amando. Vi cito a tal proposito la preghiera semplice composta da san Francesco di Assisi, che abbiamo festeggiato qualche settimana fa, in particolare questo passaggio: “O Maestro, fa che io non cerchi tanto ad essere compreso, quanto a comprendere; ad essere amato, quanto ad amare poiché è dando che si riceve”.

A volte ci sentiamo come quel tale, vuoti, insoddisfatti ed iniziamo a vagare in molteplici direzioni alla ricerca di qualcosa che vada a colmare quel senso di disagio, cadendo nell’inganno di pensare che per essere contenti dobbiamo prendere o accumulare qualcosa che ancora non abbiamo e invece occorre fare il contrario e cioè donarci, preoccuparci di amare e non di essere amati, chiedendoci cosa stiamo facendo noi per gli altri e non cosa gli altri dovrebbero fare per noi.

La tela dipinta dal veronese Francesco Bonsignori (1455-1519) e conservata presso la Cà d’Oro a Venezia ci mostra la scena narrata dal Vangelo inserendovi però un personaggio che non compare e cioè Maria che fa da testimone e forse anche da esempio, lei ha saputo donare la propria vita. Sono interessanti alcuni particolari: il giovane indossa un abito scuro che contrasta con il candore del manto di Cristo, quasi a ricordarci che il Maestro tenta di far luce nel cuore tenebroso di quel tale; l’uomo dà le spalle allo spettatore, va da Gesù preoccupato di ottenere qualcosa per sé, è una persona completamente centrata su se stessa dove non c’è spazio per gli altri; lo sguardo è stizzito, ciò che gli ha detto quel Maestro non gli piace e tiene in mano un piccolo rotolo con i comandamenti; il punto cruciale è il gesto che compie Gesù con le due dita della mano destra a evocare qualcosa di piccolo, forse il pittore voleva riferirsi alla cruna dell’ago o al fatto che il cuore di quel tale fosse troppo piccolo e perciò infelice perchè incapace di aprirsi e di donare qualcosa di sé agli altri.

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Letture d’arte è un’idea nata dieci anni fa che don Quattrone ha realizzato e che sta portando avanti per il settimanale Il Corriere della Valle della Diocesi di Aosta. Si tratta del commento delle letture della domenica compiendo un viaggio nello sconfinato panorama della storia dell’arte. Ogni settimana accosta la Parola di Dio della domenica ad un’opera, spaziando in varie forme espressive quali la pittura, la scultura, l’installazione, la fotografia, l’architettura.

Si tratta di un percorso che si muove nelle varie epoche, senza pregiudizi, scoprendo la forza e la bellezza non solo dell’arte antica ma anche di quella moderna e contemporanea. Questo cammino è iniziato quasi per gioco e sulla scia degli studi compiuti all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove Paolo Quattrone si è laureato nel 2008. La sfida è quella di riscoprire l’arte come canale privilegiato per rientrare in noi stessi, parlare di Dio e andare a Lui. Il pensiero di fondo che caratterizza questa esperienza è quello che un’opera d’arte è tale nel momento in cui riesce a farci andare oltre la superficie, oltre la realtà.

L’artista, come sosteneva Kandinskij, è un sacerdote che ha la missione di aprirci una finestra verso l’oltre, per farci accorgere che esiste una dimensione spirituale, per aiutarci ad esplorare i sentieri dello spirito. Questo ha portato don Quattrone ad affermare senza ombra di dubbio che tutta l’arte è sacra. E’ un errore immenso distinguere tra arte sacra e profana! Esiste l’arte religiosa e non, ma non è il soggetto rappresentato che rende sacra o meno una pittura, una scultura, un brano musicale o un film ma è ciò che trasmette, l’energia, la forza che suscita nel cuore dello spettatore. Questa esperienza è possibile non soltanto ammirando opere a soggetto religioso ma anche contemplando quadri, sculture, installazioni che apparentemente sembrano non comunicare nulla di profondo.

Un’opera d’arte è tale quando acquista una sua autonomia, una vita propria, quando riesce a far compiere all’osservatore riflessioni e percorsi che vanno oltre le intenzioni dell’autore. Accostare Parola di Dio e arte vuol dire far convivere due canali che hanno la finalità di farci andare oltre la superficie, che conducono l’uomo a pensare, a scoprire la dimensione spirituale della propria esistenza.  

don Paolo Quattrone-red.laprimalinea.it