Avranno il loro bel lavoro, i giudici di Appello che nel prossimo autunno (la data non è ancora stata fissata) dovranno giudicare, anzi 'rigiudicare' gli imputati del processo Geenna celebrato con rito ordinario in primo grado ad Aosta, ovvero l'ex assessora al Comune di Saint-Pierre Monica Carcea, il ristoratore aostano Antonio Raso; l'ex consigliere comunale Uv e dipendente del Casino di St-Vincent Nicola Prettico e il dipendente del Casa da gioco Alessandro Giachino.
Dovranno districarsi tra due sentenze di Cassazione (non potranno tener conto solo di una eludendo l'altra) molto diverse tra loro, seppur derivanti da un unico procedimento, 'Geenna', in realtà diversificato e sdoppiato solo perché differenti sono stati i riti processuali scelti dagli imputati e si tratta di una differenza che potrebbe ora assumere importanza capitale.
Lo scorso gennaio la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione aveva annullato nei loro confronti le condanne determinate in secondo grado (già ridotte rispetto alla sentenza di primo grado) e aveva rinviato tutto alla Corte di Appello per un nuovo giudizio. Al termine dell'esame dei faldoni processuali contenenti tutti i contradditori, le testimonianze e le lunghe arringhe e requisitorie, i Supremi Giudici avevano smontato l'accusa della Dda torinese e dei carabinieri di Aosta sotto un doppio profilo: sia sul collegamento con la 'casa madre' ovvero la 'ndrina 'Nirta-Scalzone' (per loro il collegamento non c'è o è flebilissimo e improduttivo), sia sulla capacità intimidatoria degli imputati che non avrebbero mai avuto "un programma delittuoso" tipico di qualunque associazione mafiosa e pertanto necessario per definire il gruppo una reale associazione per delinquere di stampo 'ndranghetista. La Cassazione aveva così rinviato tutto il 'malloppone' all'Appello: "Rifate il processo".
Ad aprile, però, la Seconda sezione della Cassazione aveva confermato e rese definitive le condanne per associazione di stampo 'ndranghetista inflitte agli imputati del processo torinese, quello in rito abbreviato (che prende in esame solo gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari) ovvero Bruno Nirta, Marco Fabrizio Di Donato, Roberto Alex Di Donato e Francesco Mammoliti; Salvatore Filice, Giacomo Albanini, Rocco Rodi e Roberto Bonarelli.
Con linguaggio leguleio da manuale, in trenta pagine di motivazioni pubblicate due giorni fa, i Supremi Giudici della Seconda sezione spiegano che "il processo svoltosi con rito abbreviato ha consentito di dimostrare quanto descritto in imputazione, cioè che la plurisoggettività organizzata (ancorché a ristretta base sociale) di satelliti 'ndranghetisti traslati in territorio valdostano (anche da più di una generazione) ha ivi replicato (dal 2014) un modello mafioso che si avvale dell'assoggettamento omertoso per controllare un determinato territorio e le attività (lecite o illecite) che in quel territorio hanno luogo". Ovvero: un certo numero di calabresi le cui famiglie risiedono in Valle da decenni hanno qui replicato un modello di 'ndrangheta fondato più sull'omertà che sulla violenza.
Scrive la Cassazione che "le pronunce di primo e secondo grado hanno dato conto, delle relazioni concrete, di carattere autorizzatorio-gerarchico tra esponenti di vertice della casa madre calabrese, di San Luca ed i soggetti (Bruno Nirta e Marco Fabrizio Di Donato) protesi a colonizzare il territorio vergine subalpino (la Valle d'Aosta ndr) ; la sentenza impugnata ha, in conformità a quella di primo grado, riscostruito l'attività di Bruno Nirta, dei fratelli Di Donato (Marco Fabrizio e Roberto Alex) e" di Francesco "Mammoliti, tesa ad assicurare l'operatività della propria espressione 'locale' radicata nella 'ndrangheta calabrese".
Un "potere intimidatorio" che è stato "mutuato dalla associazione mafiosa di riferimento, nel caso di specie la 'ndrangheta, e concretamente attuato anche nella gestione di attività commerciali lecite" e "perfino nella distribuzione delle aree di sosta valdostane ai mercanti provenienti dal sud carichi di prodotti autoctoni da commercializzare a latitudini più elevate".
E ancora: "In questo processo, svoltosi nel merito nelle forme del giudizio a prova contratta (rito abbreviato ndr), le acquisizioni probatorie, non sgorgate dal contradditorio dibattimentale per la prova e sulla prova in formazione, emergenti in via diretta ed immediata dagli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, hanno consentito di accertare" che ad Aosta "era operativa, negli anni in contestazione, una organizzazione mafiosa del crimine che affonda le sue radici nella 'ndrangheta calabrese, ubicata nei settori jonici reggini".
La Seconda sezione non può non esprimersi sulla decisione dei colleghi della Quinta perché, a differenza di quanto da loro affermato in sentenza di annullamento e rinvio all'Appello, "l'esito divergente" della sentenza di condanna nel processo torinese "è del tutto fisiologico e non apre la stura ad un potenziale contrasto tra giudicati, dipendendo dalla variabile processuale del differente rito scelto dagli imputati".
Come i loro colleghi di primo, secondo e terzo grado, anche gli Ermellini della Seconda sezione rimarcano nelle motivazioni di condanna come "la violenza e la minaccia" rivestono "natura strumentale della forza di intimidazione" ma costituiscono "un accessorio eventuale, o meglio latente, della stessa", dal momento che "la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione costituiscono, più che l'effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell'associazione criminale".