Nelle scorse tre domeniche di ottobre abbiamo letto il capitolo 10 di Marco e in questa ne vediamo la parte conclusiva dove Gesù guarisce un cieco, Bartimeo. Si può affermare che tutto il capitolo tratta della cecità: quella dei farisei che avevano ridotto la religiosità ad un’accozzaglia di norme e precetti vuoti di amore per Dio e per gli altri; quella dell’uomo ricco che non comprende che per essere felice deve donarsi e quella degli apostoli che confondono la grandezza con l’ottenere posti d’onore. Giungiamo ora a Bartimeo che pur essendo cieco pare essere l’unico che ci vede davvero, tanto da accorgersi che Gesù sta passando e riconosce i suoi peccati.Desidera così affidarsi al suo perdono.
I nomi nella Bibbia hanno sempre un significato perciò è bene individuarne l’etimologia: Bartimeo è composto da Bar (figlio) e Timeo (onore o ammirazione), quindi possiamo definirlo figlio dell’onore o dell’ammirazione, colui che rende onore a Gesù, lo riconosce e lo ammira per quello che è, ovvero il Figlio di Dio. Nonostante molte persone non comprendono di chi si tratta, lo scambiano per un rivoluzionario, (gli stessi apostoli a volte sembrano non cogliere la sua divinità) leggiamo che Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla. Molti gli andavano dietro senza capire e sono proprio questi che rimproverano Bartimeo per dirgli di tacere e di non disturbare il Maestro.
Possiamo essere ciechi pur vedendoci bene. Quali possono essere le nostre cecità? Non saper riconoscere il passaggio di Dio in ciò che viviamo quotidianamente perché incapaci di vivere il presente; non accorgerci che in ogni persona e situazione che incontriamo ogni giorno c’è Dio che a volte pensiamo di dover cercare chissà. Egli semplicemente si rivela nella semplicità di un incontro anche imprevisto.
Ma ce ne dimentichiamo. Ce ne dimentichiamo ogni qualvolta che non sappiamo ringraziare per ciò che viviamo e per la bellezza che ci circonda, soffermandoci solo sugli aspetti negativi in tutto e in tutti; quando non sappiamo ammettere i nostri peccati, le mancanze, le zone d’ombra per affidarle a Dio e al suo perdono, quando non sappiamo riconoscere i nostri punti di forza e le luci e ci piangiamo addosso pensando di essere i peggiori sulla faccia della terra; quando siamo talmente concentrati e ripiegati su noi stessi che non sappiamo alzare lo sguardo per accorgerci che c’è anche Dio, che non ce la caviamo sempre e soltanto da soli, che la vita non è solo ciò che faccio e che posseggo; quando crediamo che il Signore passi solo per certe strade, in certi ambienti e non ci rendiamo conto che spesso ama uscire dagli schemi e pur di salvarci percorre le strade più impensate; quando riduciamo la fede e la religiosità a regole, paletti, precetti dimenticandoci che essere credenti significa relazionarci con Dio e aver sete di Lui.
Bartimeo seduto in disparte lungo la strada e i discepoli con la folla che lo rimproverano mi fanno pensare che a volte noi cristiani siamo più ciechi di chi sta ai margini, di chi sta fuori dai nostri circoli, rischiando di smarrire la curiosità e il desiderio di Dio, riducendo la fede ad abitudini sterili, a tradizionalismi, a sensi di colpa, a clichés. Ogni tanto in certi nostri ambienti sento ripetere questo ritornello lamentoso e noioso: alla gente non interessa più Dio. Non è affatto vero! Forse a molti non interessa più una fede di un certo tipo, stantia, tradizionalista ma c’è tanta gente, lungo la strada, fuori dalle chiese, dai luoghi ufficiali che si fa domande, che nutre curiosità per le realtà spirituali ma spesso non incontra nessuno che la aiuti a camminare perché crediamo che la fede viva solo tra le mura delle nostre parrocchie e strutture religiose. Ci sono tante persone che noi consideriamo cieche, che etichettiamo, che non avviciniamo perché non rientrano nei nostri schemi e che invece ci vedono bene, forse meglio di noi. Questo è il caso del ventunenne statunitense Jeffrey Hanson, pittore contemporaneo che ha perso la vista da bambino a causa di un tumore al nervo ottico. Dipinge servendosi del tatto creando opere caratterizzate da colori in rilievo come nella tela Ancorati a Nevis.Nevis è una piccola isola montuosa dei Caraibi. Le persone che sono distanti dalle nostre chiese e che a volte giudichiamo cieche sono in realtà un punto di domanda per tutti noi: che fede stiamo presentando e vivendo? Una fede affascinante o stantia e grigia?
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Letture d’arte è un’idea nata dieci anni fa che don Quattrone ha realizzato e che sta portando avanti per il settimanale Il Corriere della Valle della Diocesi di Aosta. Si tratta del commento delle letture della domenica compiendo un viaggio nello sconfinato panorama della storia dell’arte. Ogni settimana accosta la Parola di Dio della domenica ad un’opera, spaziando in varie forme espressive quali la pittura, la scultura, l’installazione, la fotografia, l’architettura. Si tratta di un percorso che si muove nelle varie epoche, senza pregiudizi, scoprendo la forza e la bellezza non solo dell’arte antica ma anche di quella moderna e contemporanea. Questo cammino è iniziato quasi per gioco e sulla scia degli studi compiuti all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove Paolo Quattrone si è laureato nel 2008. La sfida è quella di riscoprire l’arte come canale privilegiato per rientrare in noi stessi, parlare di Dio e andare a Lui. Il pensiero di fondo che caratterizza questa esperienza è quello che un’opera d’arte è tale nel momento in cui riesce a farci andare oltre la superficie, oltre la realtà. L’artista, come sosteneva Kandinskij, è un sacerdote che ha la missione di aprirci una finestra verso l’oltre, per farci accorgere che esiste una dimensione spirituale, per aiutarci ad esplorare i sentieri dello spirito. Questo ha portato don Quattrone ad affermare senza ombra di dubbio che tutta l’arte è sacra. E’ un errore immenso distinguere tra arte sacra e profana! Esiste l’arte religiosa e non, ma non è il soggetto rappresentato che rende sacra o meno una pittura, una scultura, un brano musicale o un film ma è ciò che trasmette, l’energia, la forza che suscita nel cuore dello spettatore. Questa esperienza è possibile non soltanto ammirando opere a soggetto religioso ma anche contemplando quadri, sculture, installazioni che apparentemente sembrano non comunicare nulla di profondo. Un’opera d’arte è tale quando acquista una sua autonomia, una vita propria, quando riesce a far compiere all’osservatore riflessioni e percorsi che vanno oltre le intenzioni dell’autore. Accostare Parola di Dio e arte vuol dire far convivere due canali che hanno la finalità di farci andare oltre la superficie, che conducono l’uomo a pensare, a scoprire la dimensione spirituale della propria esistenza.